Tra i protagonisti schierati in prima linea nella lotta al Coronavirus, c’è il professore Matteo Bassetti, che dal 1° novembre 2019 è Direttore della Clinica Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, nonché docente ordinario di Malattie Infettive all’Università della stessa città.
Il professor Bassetti vanta un curriculum d’eccellenza che, dal 2011 al 2019, lo ha portato a ricoprire, tra i numerosi incarichi, anche quello di Direttore della Clinica Malattie Infettive dell’ASUI di Udine.
Oltre a quella professionale, Matteo Bassetti vanta anche una carriera nel mondo arbitrale.
Nel 1986, all’età di 16 anni, è diventato arbitro effettivo della Sezione di Genova, arrivando ad arbitrare, per quattro Stagioni consecutive, la Serie D. Inoltre, per ben quattro anni, ha dato il suo contributo all’AIA in qualità di membro della Commissione Medica Nazionale.
Attualmente è arbitro associativo.
Professore, ci racconti della pandemia da Covid-19.
“Probabilmente alla fine del 2019, in Cina, il virus dall’animale si è trasmesso all’uomo e, nonostante le misure di contenimento, in soli due mesi, è arrivato prima in Italia e poi in Europa nonché nel resto del mondo.
Questa è un’infezione nuova, che ha come caratteristica principale l’altissima contagiosità, ossia la facilità di trasmissione da una persona ad un’altra causando molti contagi in un breve periodo, seppur mantenendo una bassa letalità. Altra caratteristica peculiare, che la rende difficile da diagnosticare, è quella della variabilità delle manifestazioni cliniche: da un’infezione simile all’influenza con sintomi quali poca febbre, tosse, dolori articolari, congiuntivite, mancanza del senso degli odori e dei sapori, si passa alla febbre alta, fino ad arrivare a vere e proprie crisi respiratorie e polmonite devastante.
Quindi, per diagnosticare tale infezione i tamponi e i test sierologici risultano indispensabili”.
Come avete affrontato il virus?
“Già il 1° febbraio ho istituito una guardia infettivologica disponibile tutta la settimana, non solo di giorno, ma anche di notte. In seguito abbiamo iniziato a lavorare per avere disponibili tutti i dispositivi di protezione individuale. Si sono fatte delle prove, in particolare sul funzionamento delle stanze a pressione negativa per isolare i pazienti Covid-19. Inoltre, importante è stata anche la valutazione dei farmaci disponibili per trattarlo.
Quando a fine febbraio sono iniziati ad arrivare i ricoveri, il reparto di malattie infettive, di terapia intensiva e il pronto soccorso sono stati riorganizzati e si è riusciti anche ad allestire altri quattro padiglioni con 350 posti letto destinati esclusivamente ai pazienti Covid-19.
Nel frattempo il laboratorio di virologia si è attrezzato per fare i tamponi e i test sierologici.
Abbiamo gestito l’intera ondata epidemica di Genova, ma anche di altre zone della Liguria. Il S. Martino ha fatto da faro a tutta la regione.
Quando l’epidemia è arrivata noi eravamo pronti, tanto che il S. Martino ha retto meglio di ogni altro ospedale del nord Italia ed è stato considerato come modello di ospedale che ha gestito in maniera efficiente l’emergenza sanitaria”.
Quale ritiene sia stata l’arma vincente nella gestione dell’emergenza?
“Ciò che ha funzionato di più è stato uscire dalle logiche baronali del passato per fare medicina moderna: ci siamo, infatti, aiutati l’uno con l’altro tra specialità diverse: malattie infettive, rianimazione, pronto soccorso, medicina interna, pneumologia, ma anche tra professionisti diversi: infermieri, OSS, barellieri, militi, addetti alle pulizie e amministrativi.
Dal momento che è una malattia che nella maggior parte dei casi è gestibile a casa con la collaborazione dei medici di base, fondamentale è stato anche il rapporto con la medicina territoriale. Per affrontare efficacemente l’emergenza abbiamo creato una grandissima famiglia con la quale abbiamo lavorato costantemente ed ininterrottamente per quasi due mesi e con cui continueremo a lavorare.
Grazie a questo modus operandi, nessun paziente è stato lasciato senza assistenza, tutti sono stati curati al meglio”.
Qual è la situazione oggi?
“Stiamo gradualmente uscendo dall’emergenza, i numeri ce lo confermano: abbiamo meno pazienti in terapia intensiva e, complessivamente, una minore pressione sul sistema sanitario. Inoltre, i casi delle ultime settimane presentano un quadro clinico meno grave.
Se si deciderà di allentare le misure restrittive, bisognerà farlo in modo graduale mantenendo un importante distanziamento sociale ed adottando tutti gli accorgimenti necessari volti a prevenire la trasmissione del virus e quindi ad evitare una nuova impennata dei contagi.
In vista della fase 2, oltre ai tamponi, ritengo che i test sierologici siano un ottimo strumento per mappare i cittadini che sono venuti in contatto con il virus e quindi capire quanto il Covid-19 abbia circolato nella popolazione. Inoltre, questi test sono altresì utili per darci qualche spunto sull’immunità. Ad oggi, non sappiamo quanto l’immunità possa durare, se qualche mese o qualche anno, però l’importante è che con l’immunità si possa arrivare a coprire il tempo che manca allo sviluppo del vaccino”.
Da un punto di vista della comunicazione, ha riscontrato difficoltà?
“Tutti ci siamo dovuti adeguare. Io sono passato dall’essere un medico conosciuto dai colleghi e da pochi altri, all’essere un personaggio pubblico, la cui opinione in merito al virus viene richiesta quotidianamente dalla televisione e dai giornali. È cambiata la mia vita e la mia figura. Personalmente mi riapproprierei molto volentieri del mio passato perché io amo il mio lavoro e vorrei poterlo continuare a fare a tempo pieno.
In questi mesi, anche attirandomi tante critiche, ho cercato di avere una comunicazione molto pacata, evitando l’allarmismo e il catastrofismo, che non portano da nessuna parte.
Alla fine credo e spero di aver avuto anche ragione perché questa è un’infezione ad altissima contagiosità, ma a bassa mortalità”.
Oltre ad essere un luminare della medicina italiana, è anche associato AIA. Quanto ha inciso l’arbitraggio sulla sua carriera professionale?
“L’arbitraggio mi ha formato caratterialmente, sotto ogni punto di vista, e questo grazie anche a maestri come Claudio Pieri, che ricordo con grande affetto.
Indossando la divisa ho imparato il rigore e l’osservanza delle regole, che sono indispensabili sia nello studio sia nel lavoro. Inoltre, l’arbitraggio mi ha insegnato a rispettare gli altri e a farmi rispettare, non solo in campo, ma anche nella vita di tutti i giorni.
Quando ho ricoperto il ruolo di primario all’ospedale di Udine, ero molto giovane, non avevo ancora 40 anni e mi sono ritrovato a dover lavorare con persone più anziane di me. È sicuramente merito dell’arbitraggio se sono riuscito a gestire efficacemente i rapporti interpersonali e il mio lavoro.
Sono molto orgoglio di far parte dell’AIA e, a seguito della mia esperienza, ritengo che essere arbitro sia un percorso che tutte le nuove generazioni dovrebbero intraprendere”.
Fonte: Rivista “L’Arbitro” n. 1 – 2020 pag. 8
Manuela Sciutto | craliguria.it